Dopo il default del 2001, in Argentina torna la crisi, legata ad una pesante politica di spesa pubblica che, lungi dal risollevare il Paese, lo sta inabissando in una nuova voragine. La crisi Argentina fu per certi versi epocale: dal ’29 le economie moderne sembravano inaffondabili, finché il grande Stato sud-americano non diffuse nel mondo le immagini del collasso economico-finanziario. Pare che le ricette per il rilancio, basate sul debito, non abbiano portato benefici e si affaccia lo spettro del tracollo finanziario.
L’Italia non ha (ancora) raggiunto quei livelli di difficoltà sociale, non abbiamo assistito ai saccheggi dei supermercati, tuttavia nessuno può dire che vi sia stata una sterzata vigorosa, un cambio di rotta che indirizzi verso lidi sicuri. Anzi, il sistema produttivo è sempre più soffocato da tasse e burocrazia. Lo Stato è visto come erogatore di risorse di tutti e di nessuno: tanto paga Pantalone. L’opinione pubblica non collega facilmente quel debito ad un fabbisogno dello Stato, da colmare con le entrate dei/dai cittadini. E questo succede anche in veterinaria. Si parte dalla “produzione” di laureati. Nonostante un mercato del lavoro strasaturo da due decenni, le nostre 14 facoltà sfornano circa mille veterinari all’anno, impossibili da collocare. Eppure si stima che per ognuno di essi l’Università pubblica sostenga costi per almeno 300.000€.
Pochi Colleghi troveranno un lavoro decoroso ed il reddito sarà tra i più bassi nel panorama delle professioni liberali. Chi avrà impiego con il SSN pubblico non vedrà contratti di collaborazione che retribuiscano la precarietà. Il sistema è totalmente ribaltato rispetto ad un mercato del lavoro naturale, dove l’utilizzo di personale “al bisogno” è retribuito in misura maggiore, per ripagare l’insicurezza. Indubbio vantaggio sia per datori di lavoro, sia per dipendenti “normali”. Specialmente in un ambito caratterizzato da ricorrenti emergenze sanitarie, che richiedono disponibilità di numeri per determinati e limitati periodi; non per sempre. Invece nella sanità nostrana, il precario riceve circa un terzo della busta paga del collega non-precario. Ma rimane lì, perché l’alternativa è la fame, e lo Stato parrebbe approfittarne a man bassa. In fondo il Collega spera sempre che si sbocchino le assunzioni, anche se abbiamo quasi 7000 pubblici mentre la Germania ne conta circa 1000 (noi, con un terzo delle loro produzioni zootecniche e 25 milioni di abitanti in meno!). E a ben vedere, li abbiamo anche distribuiti male, con i numeri più risicati nelle Regioni a maggior vocazione produttiva.
La privatizzazione è un termine tabù. Pare non riguardare questo comparto. Eppure non sarebbe difficile: abbiamo ambulatori per animali da compagnia che potrebbero essere privatizzati anche domani. Non rientrano certo nelle priorità di spesa del Sistema Sanitario, ma all’utente comune sfugge che un H24 pubblico ha bisogno di almeno 6 dipendenti per coprire i turni. Costo medio di ciascuno: 100.000€/anno. E la prevenzione vera non sta nel numero degli addetti, ma nelle corrette strategie dei controlli, possibilmente senza aree grigie controllore-controllato. Potrebbe far scuola un modello di libera professione all’Europea, investita di responsabilità e correttamente retribuita, ma non se ne parla nemmeno nei vari progetti di riforma della sanità. Un modello dove il sistema pubblico non ha tanti dipendenti da dover inventare loro un impiego (tanto per fare un esempio il DNA dei cani, per rintracciare chi ha defecato) o ostacolare il sistema produttivo con burocrazia senza senso, che spesso contribuisce in modo determinante allo smantellamento delle produzioni. La spesa pubblica non è automaticamente sinonimo di investimento: può essere spesa produttiva (infrastrutture, trasporti , reti di comunicazione…) o improduttiva (controlli sterili, burocrazia, complicazioni, distorsione del mercato…).
La nuova crisi argentina dovrebbe rappresentare un secchio d’acqua in faccia di chi crede nel “tiriamo a campare” e nella possibilità che le uscite superino strutturalmente le entrate. Prima o dopo, arriva il conto da pagare. Per tutti.
Angelo Troi
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