Cosa c’è di buono nel chiudere un cane a vita in una gabbia?
Nulla, infatti non lo fa nessun altro Stato. Eppure il “sistema Roma” -migliaia di cani in gabbia- viene evocato quasi come un esempio virtuoso.
Da parte mia, per quelli che ho frequentato, avverto ancora il frastuono quasi ininterrotto del loro abbaiare. Immagino come debbano percepire odori insopportabili esseri con l’olfatto finissimo: il cane è un animale macrosmatico, la cui capacità di avvertire, discernere, localizzare un odore, supera di gran lunga tutti gli altri sensi (vista compresa). Gli odori sono i loro altoparlanti; devono esserne storditi, in ambienti del genere. Penso alle loro attitudini sociali, gerarchiche e di branco, frustrate dalle barriere di gabbie in cui mangiano, urinano e defecano, guardando i loro simili senza alcuna possibilità di interagire secondo la loro indole. Questo soddisfa i loro bisogni naturali? Appaga tensioni psico-emotive loro o di chi tanto li “ama” da tenerli in quelle condizioni?
Ma la soluzione “canile” non si spinge fino alle necessità degli animali; necessità che essi non possono esprimere in modo chiaro, dato che non parlano. Chi le interpreta, lo fa dunque a proprio piacimento (e tornaconto?). Il problema dei canili è che ha creato giri di soldi da milioni di euro: dipendenti pubblici, strutture, ambulatori, sovvenzioni ecc. costruite in nome della tutela degli animali e trasformati in rendita di posizione, con tutte le anomalie che da sempre denunciamo, a cominciare dallo sfruttamento dei volontari puntualmente frustrati da inchieste che rivelano tesoretti o rendite messi da parte da chi li illudeva di far del bene. E business collaterali, come costituzioni di parte civile, cause pretestuose quanto inutili (sempre più frequenti anche in veterinaria), ingolfamento di pratiche giudiziarie a danno tanto della collettività, quanto del singolo proprietario di un animale.
Ebbene, ammesso e non concesso che il canile a vita non sia in realtà maltrattamento, merita un plauso il Sindaco di Roma -Ignazio Marino- che ha osato toccare l’intoccabile. Prassi radicate e rendite di posizione su cui non si può discutere nemmeno quando i Comuni sono letteralmente al default di bilancio, e la sanità pubblica non se la passa meglio.
Se volessimo gestire bene animali adottabili, per un tempo congruo a non trasformare l’accoglienza in ergastolo, per quale ragione i canili pubblici o di associazioni dovrebbero essere “buoni” e quelli privati “cattivi”? Per prima cosa chiariamo che pochissimi fondi destinati ai canili provengono dalle donazioni dei cittadini: la legge li pone in carico ai Comuni e molte associazioni destinano la maggior parte del budget al proprio funzionamento; diversamente da quanto accade all’estero, dove i fondi raccolti dalle varie associazioni sono effettivamente destinati al mantenimento dei cani in strutture private, non essendo previsto il mantenimento a vita da parte della collettività. Gli animali senza padrone gravano, in buona sostanza, sulle casse comunali e delle aziende sanitarie, per quanto di rispettiva competenza (come prevede la legge), cioè sulle tasse dei cittadini.
Allora, stabilite le regole, è indubbio che un privato si controlla meglio, ci sono contratti chiari e autorità che possono effettuare ispezioni e richiedere assunzioni di responsabilità e professionalità. Aspetti difficili da pretendere da quel che dovrebbe essere “no-profit”. Soprattutto viene meno il conflitto di interesse, abbastanza evidente nel momento in cui il pubblico dovesse controllare una struttura pubblica, che magari gli garantisce -a sua volta- motivo di esistere. Inoltre, ragionando dal punto di vista dello Stato, metà di quanto elargisco al privato mi ritorna indietro in fiscalità, trattandosi di attività soggette ad imposte.
Forse gli amministratori cominciano ad accorgersi che in passato si è esagerato, rincorrendo tutti i gruppi di pressione che hanno saputo magistralmente intercettare il favore dei mass-media. Forse questo ridisegnerà le priorità di spesa, magari cominciando proprio dalla Magistratura Contabile che potrebbe interrogarsi sull’utilità pubblica (reale, ideologica o lobbistica) di certi capitoli d’uscita, destinati -anche nella sanità- ad animali che dovrebbero essere esclusivamente a carico di chi decide liberamente di assumersene la responsabilità. Comunque pare un segnale di presa di coscienza da parte della politica che chi si è opposto alla riorganizzazione del “sistema Roma” si possa contare sulle dita delle mani. Mentre moltissimi altri -on. Marco Ciarafoni (PD), in testa- abbiano stigmatizzato l’insensibilità verso il contenimento della spesa pubblica, così pervicacemente perseguito da Matteo Renzi.
I canili non hanno risolto il problema del randagismo: Roma docet, dove si segnalano 5.000 randagi e vengono persino catalogati i branchi sul territorio! La vera fonte di randagi sono le cucciolate indesiderate degli animali di proprietà, mentre i cani liberi sopravvivono in bassissima percentuale alla pressione ambientale ed alle malattie.
Da parte nostra, come medici veterinari liberi professionisti, dobbiamo preoccuparci che gli animali (tutti) siano correttamente gestiti, interpretando le loro esigenze, distinguendole da quelle a favore di altri soggetti e -possibilmente- a debita distanza da ideologie o psicosi anti-scientifiche.
Anche per ridare una dignità alla professione del medico veterinario.
Angelo Troi – SIVeLP
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