Nel 1997 venne istituito in Italia il numero chiuso. Avevamo molti studenti fuori corso e l’Europa faceva pressione per una riduzione dei tempi dei corsi di laurea. A medicina veterinaria era normale entrare al primo anno con altre 200/300 matricole; poi gli esami selezionavano e alla fine il numero dei laureati non era era diverso da quelli attuali.
Intanto le facoltà a numero chiuso divennero sempre più ambite. Infatti i dati forniti alle famiglie sulle possibilità di lavoro offerte da certe lauree si basano su informazioni raccolte nel post-laurea senza mai voler vedere i dati veri, cioè le dichiarazioni dei redditi.
In un primo momento il numero chiuso si programmò all’incirca sul numero di quanti si laureavano in corso negli anni precedenti, ma il calo delle matricole comportava anche un forte decremento delle tasse universitarie. Le facoltà si trovarono a dover scegliere tra mandare avanti tutti gli iscritti, garantendosi un gettito economico costante, o selezionare, riducendo le entrate fino al limite dell’insostenibilità.
Ben presto si percepì l’impossibilità di occupare tutti i laureati e si iniziò a parlare di “numero programmato”. Questo portò alcune facoltà ad avere una trentina di matricole al primo anno e la necessità di fare i conti con il bisogno di introiti divenne sempre maggiore.
Nonostante questo la trattativa sul numero programmato si rivelò un mercato delle vacche tra chi voleva mantenere in piedi i corsi e chi voleva tagliare i numeri. Le facoltà stavano diventando sempre più costose, anche perchè tra i requisiti dellle facoltà vi era quelle di maggior attività pratica (invero quasi inesistente precedentemente).
Nacquero dunque gli Ospedali Veterinari, strutture complesse ed onerose, facili da integrare in medicina umana (dove le università sono storicamente collegate a prestigiosi ospedali) ma abbastanza assurdo in veterinaria dove si dovettero edificare, strutturare ed attrezzare dei complessi completamente estranei al mercato della professione; le facoltà entrarono in concorrenza con i professionisti e furono create persino alleanze funamboliche con il SSN per giustificare mega-strutture con numeri complessivi di addetti spesso non lontani dal centinaio, costi di almeno un milione all’anno e nessun senso dal punto di vista dell’interesse collettivo. Spesso divennero stampelle per il sistema pubblico per sterilizzare randagi o erogare prestazioni a privati (un mercato sostanzialmente inutile per il sistema sanitario).
La pratica nei corsi di laurea rappresenta ancora un problema perché ha senso per chi ha raggiunto una certa preparazione globale nella materia, altrimenti metà del tempo si rivela sprecato. meglio – e a costo zero – un biennio di tirocinio obbligatorio prima dell’iscrizione all’albo. Comunque il numero chiuso fu aggirato da una miriade di corsi paralleli che non definendosi “medicina veterinaria” potevano rimanere ad accesso libero: tecnici, infermieri, zoonomi, esperti, ecc applicando la proverbiale fantasia italica nello scovare nuovi profili. A volte gli esami dei corsi aperti sono riconosciuti in quelli chiusi e dunque si scavalca la barriera.
La raccolta di dati sui fabbisogni di laureati rappresentava essa stessa un percorso curioso. Il Ministero chiede alle regioni i fabbisogni, le regioni attraverso i loro assessorati chiedono il dato ai servizi veterinari. Essi formulano ipotesi sul numero di veterinari pubblici che vorrebbero (da sottolineare l’auspicio) avere, quindi danno dei numeri cui saranno sommati i presunti posti di lavoro nella libera professione, poi si tratta un po’ per bilanciare: et voilà il numero che permette di far rimanere aperta la sede universitaria (in Italia ne abbiamo 13 più una di sola specializzazione, un quarto di tutta a la UE).
Risultato: nel 2012 le previsioni di pensionamento dei veterinari pubblici in 10 anni erano di circa poco più di 1200. Nel medesimo anno l’accademia ne sfornava 1200 in un colpo solo! E il reddito medio delle laureate fino a quarant’anni (ormai oltre il 75% dei nuovi iscritti è donna) è di 10.415 euro. alla faccia della programmazione.
Angelo Troi – Segretario Nazionale SIvELP