20/12/2010 Editoriali7 Minuti

Veterinari “in difesa”

Sivelp

Si chiama “medicina difensiva” e consiste nel lavorare con un occhio al paziente ed un altro ai codici di legge. Fino a pochi anni fa si trattava di un fenomeno che toccava solo occasionalmente il veterinario, e non era certamente percepito come un problema dalla categoria. In medicina umana …

Si chiama “medicina difensiva” e consiste nel lavorare con un occhio al paziente ed un altro ai codici di legge. Fino a pochi anni fa si trattava di un fenomeno che toccava solo occasionalmente il veterinario, e non era certamente percepito come un problema dalla categoria. In medicina umana i dati sono invece preoccupanti, con un numero di sinistri denunciati dal 1994 al 2008 in sensibile aumento: approssimativamente da 10.000 e 30.000. Il timore di complicazioni medico legali arriva ad interessare il 90% dei medici di aree a rischio ed è nata addirittura un’associazione di medici accusati ingiustamente di malpractice (AMAMI), con oltre 25.000 iscritti. Secondo questa associazione l’80% dei processi si risolve con l’assoluzione. Nel frattempo si sono impegnati organi di controllo, tribunali, legali, tempo e risorse preziosi per l’attività professionale e per i cittadini che li finanziano attraverso le tasse. La risposta del professionista della sanità è la “medicina difensiva”. Fenomeno perverso detto medicina difensiva positiva quando vengono adottate procedure come visite, esami, pratiche diagnostiche, terapie con lo scopo primario (ma non necessariamente o unicamente) di ridurre l’esposizione ad eventuali accuse o ricorsi. Viene definita medicina difensiva negativa quella che consiste nell’evitare pazienti o terapie ad alto rischio, con lo stesso scopo. Si inquadra nello stesso ambito anche la redazione di documentazione clinica inutile, prodotta solo per autotutela. In veterinaria ci sono sempre state situazioni delicate, come quelle degli Ippiatri dei cavalli da corsa, dove i proprietari si sono dimostrati più propensi che in altri contesti a cercare motivi di risarcimento. Negli allevamenti, come nei piccoli animali, vi era invece una grande fiducia nel proprio veterinario ed erano estremamente rari i casi di richieste di danni, numericamente riconducibili ad un fisiologico rapporto proprietario – professionista, con situazioni limite sia del denunciante che del denunciato (nessuno è infallibile!). Pur lontanissimi dal quadro della medicina umana, pare che attualmente cominci ad avere un certo appeal anche il ricorso alle vie legali contro chi cura gli animali, spesso sostenuto, come per l’umana, da associazioni spuntate ad hoc. Ma siamo sicuri che chi si spaccia per paladino dei loro diritti faccia loro veramente un favore? Per prima cosa chiariamo che l’80% delle cause contro i medici termina con l’assoluzione, dato che avrebbe di che farci riflettere. In veterinaria sono moltissime le richieste di danno che non arrivano nemmeno oltre una prima lettera. Le cause presentano poi aspetti risarcitori del tutto diversi quando si parla di animali da reddito (sportivi, da riproduzione, destinati alle produzioni animali), rispetto ad animali da compagnia, il cui valore materiale è quantificabile in cifre che non giustificano quasi mai le spese di un procedimento. Detto questo, ovviamente chi coinvolge il proprietario in iter giudiziari gli prospetta ben altri esiti, spesso suffragato da notizie di stampa che enfatizzano errori o ne inventano addirittura di sana pianta, come il caso ripreso la scorsa estate dal Lazio, e dato per certo, che invece si era concluso anni or sono con due gradi di giudizio contro il proprietario, smentito dalla stessa fonte di stampa dopo la segnalazione del nostro Sindacato. Atteggiamenti persecutori verso il veterinario determinano tuttavia danni materiali immediati quasi maggiori di quanto non succeda in umana, perché passando il concetto della necessità di contabilizzare una certa quota di spese per questioni legali, questa non potrà che ricadere, molto pesantemente, sui proprietari. Pensate a quanti esami e quali costi comporterebbe l’applicazione rigida di protocolli diagnostici. Non potrebbero più essere bilanciate necessità dell’animale e possibilità economiche del proprietario, ma si avrebbe una sorta di aut aut: non ci troveremmo nelle condizioni di formulare una diagnosi ed una conseguente terapia senza il maggior numero possibile di indagini in qualche modo pertinenti. E gli animali potrebbero essere coinvolti, per difesa, in esami e terapie inutili, ospedalizzazione ed addirittura procedure invasive superflue. D’altra parte chi invoca processi decisionali dettati da rigide linee guida (peraltro inapplicabili anche in umana, dove comunque paga lo Stato), come chi richiede dotazioni strumentali obbligatorie e disponibilità di H24, non riflette sul fatto che tutto questo ha un costo e che tale costo dovrà ricadere su tutte le prestazioni. Non immagina che le strutture a disposizione dell’animale sarebbero drasticamente ridotte, e con esse anche la disponibilità di soccorso su vaste aree del Paese. Ingenuo o in mala fede? Ma al di là di questi ragionamenti oggettivi, ci infastidisce l’idea di praticare una professione che implica una buona dose di passione, con la “pistola puntata”, dovendo pensare ogni volta non a cosa fare per un animale sofferente, ma cosa non fare per evitare brutte sorprese. Non è un bel modo di lavorare e non conviene a nessuno, soprattutto non ai nostri pazienti. Non ci piace l’enfasi che non gratifica i tantissimi “buoni”, ma ingigantisce i pochissimi “cattivi”. Per cui attenti a chi vorrebbe imporre strutture snob e titoli accademici, di cui non comprende la portata: ha interpretato male gli interessi dell’animale e del proprietario, confondendo la medicina con automatismi meccanici che non le competono.

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